Autarchia: chi fa da sè fa davvero per tre?

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In psicologia e in politica autarchia è la modalità di comportamento che fa dell’autonomia la massima aspirazione. Il suo opposto è la dipendenza, che avviene quando le mie azioni sono decise dal suggerimento altrui.

La via regia al benessere non passa per nessuna delle due alternative, ma per una mescolanza tra queste che si chiama interdipendenza. Questa descrive la possibilità di stringere relazioni anche molto profonde, che ci fanno sentire in rete, ci confortano quando serve e verso le quali possiamo offrire lo stesso sostegno. Attitudine che lascia allo stesso tempo liberi di realizzarci, di fare scelte. 

La dipendenza è decisamente impopolare, per cui non spendo tante parole. Sembra evidente che essere dipendenti è una forma di schiavitù del pensiero, con cui svendiamo le nostre scelte e ci facciamo condizionare dagli altri. 

La più profonda critica ad entrambe le tendenze estreme è la lezione che ci dà la nostra natura, quella di mammiferi sociali, che richiede una profonda relazionalità fin dall’inizio della vita. Tanto più viene alimentata, tanto più fa crescere sani e immuni. Poche carezze al giorno nei topi neonati li rende molto più forti e resistenti alle malattie da adulti.

Certo abbiamo culture, locali o globali, che vanno in direzioni opposte, ma sono aberrazioni che non tengono conto delle nostre necessità biologiche, non onorano i milioni di anni della nostra storia evolutiva. Potremmo convincerci che non abbiamo bisogno di mangiare? No, mangiare è una necessità. Eppure tante persone sono convinte che senza relazioni si può vivere, senza rapporti profondi la vita è ugualmente piacevole, senza l’aiuto nel momento del bisogno possiamo uscire vincenti. Beh, la natura non dice così. Gli autarchici, per avere ragione, dovrebbero ricablare l’intero sistema nervoso in modo da non avere bisogno come nutrimento le relazioni e la vicinanza quando serve.  

Esiste un ricco filone di studi e ricerche condotti da neuroscienziati negli ultimi 20 anni che rende sempre più chiaro quali meccanismi sofisticati si mettano in atto per le nostre danze relazionali. Sono moltissime le aree del nostro sistema nervoso costruite per cogliere i segnali degli altri, viverli, usarli, rinviarli. Anche i movimenti di chi ci circonda o le loro emozioni, sono processate dai neuroni specchio che fanno vivere dentro di noi i movimenti e le emozioni di chi ci sta di fronte. 

I sostenitori dell’autarchia sono convinti che non sia così; quello che non sanno è che la loro convinzione non è innata, ma si è costruita. La natura ci rende bisognosi di relazione. Se però ci capitano genitori freddi, scocciati dalle nostre richieste, distanti ed evitanti, impariamo presto ad abbassare le nostre richieste. Facciamo bene, in quella fase di vita: perché continuare ad essere frustrati dalle risposte negative, se possiamo chiedere di meno? L’autarchia è una strategia di riduzione del danno, non la migliore possibile.

I grandi leader sono aperti, sanno circondarsi di persone a cui chiedere e dare feedback, sanno offrire aiuto agli altri. Non solo non hanno paura di immergersi in reti relazionali, ma le promuovono. La capacità di tessere relazioni profonde, autentiche, franche è una delle fondamentali soft skill. Inoltre la capacità empatica è difettosa negli autarchici, ma è fondamentale per avere buone relazioni nella vita non solo professionale. ( https://www.youtube.com/watch?v=8vB_8tsQ-b4 )

Cosa fa invece un leader autarchico? Prende decisioni senza comunicarne le ragioni, è chiuso e non lascia capire quale direzione prende, limita le relazioni al minimo indispensabile, tiene i segreti, ha paura di condividere, non è empatico. Facile capire quale clima aziendale produca.

Un modo efficace per aiutare gli autarchici è quello di confrontarli con le persone con cui lavorano, attività molto potente; usando l’approccio  sistemico è possibile produrre questi cambiamenti, maneggiando con cura le relazioni lavorative.